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Un recente tragico avvenimento (la morte in moto di un’amica) ha fatto sì che alcune persone mi riproponessero la domanda che spesso molti di noi si sono sentiti fare, soprattutto da chi in moto non ci va: perché vai in moto?

“Perché?”, mi chiedono: dico mi chiedono poiché io questa domanda ormai non me la faccio più.

Cosa posso rispondere a chi in moto non ci va? Come posso spiegare che chiedermi perché vado in moto è come chiedere a un non motociclista perché cammina, perché va in auto, perché mangia, perché respira?

Come posso spiegare le sensazioni che provo andando in moto, in un giorno di sole con la temperatura mite e il vento che accarezza la mia pelle, o in una giornata di freddo e pioggia, con l’acqua che sferza il mio giubbotto tentando di superare il sottile strato di pelle che mi isola dall’ambiente esterno?

Sia su un passo di montagna, selvaggio e solitario, che nelle tranquille passeggiate per le terre di casa mia. Tanto su una strada piena di curve, quanto sui lunghi rettilinei.

Come posso? Non posso, forse. Certe cose, per capirle davvero, probabilmente è necessario provarle sulla propria pelle, non basta ascoltare delle spiegazioni.

“Ma è pericoloso”, spesso insistono.

Sì, lo so, lo ammetto, non lo nego: andare in moto è pericoloso, più che andare in auto.

Lo è comunque, anche se si adottano tutte le possibili precauzioni: non c’è casco, tuta di pelle, protezioni omologate ai gomiti, spalle, fianchi e schiena, airbag che possano portare il livello di sicurezza passiva di un motociclista a quello goduto da un automobilista. E’ inutile illuderci, è così.

Questo l’ho accettato da tempo e, forse anche per questo, non mi pongo tanti problemi quando, d’estate, decido di godermi la moto un po’ più “liberamente” (mantenendo solo il casco).

Ma può il livello di pericolosità di un’attività indurci a non svolgere quell’attività? No, almeno entro certi limiti.

Credo che dobbiamo accettare il fatto che la pretesa alla assoluta sicurezza di ogni attività umana è una pura illusione che, anziché semplificare la vita, la complica oltre ogni ragionevole misura.

Non possiamo vivere sempre con l’incubo che quello che facciamo è pericoloso: credo che, posti certi ragionevoli paletti, ad ognuno debba essere lasciata la libertà di cosa fare della propria vita, la libertà, anche, di metterla a rischio, consapevolmente, svolgendo un’attività che gli piace. Altrimenti non si vive più.

Sarà per questa raggiunta consapevolezza che, mentre ero a terra dopo il grave incidente subito alcuni anni fa, dopo aver fatto un volo sull’asfalto che mi aveva portato a ricadere nella corsia opposta ? (come quella mia sfortunata amica pochi giorni fa), il mio primo pensiero era stato “cosa si sarà fatto la moto” e “quando riuscirò a ripartire” e non certo “se ne esco vivo non risalgo più in sella”.

Alcuni la chiamano incoscienza, io preferisco considerarla razionale accettazione del rischio calcolato. Io accetto il rischio, lo riduco finché è possibile e fino a quando non è eccessivamente gravoso per me ridurlo, ma non lo sfuggo, non rinuncio a ciò che mi piace solo perché è rischioso.

Quindi questa è la risposta o, almeno, questa è la mia risposta.

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