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Sei in: MOTO - TRANSASIA: VIA DELLA SETA, MONGOLIA, SIBERIA - DIARIO DI VIAGGIO - GIORNO 26
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TRANSASIA
Via della Seta - Mongolia - Siberia

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5.7.2009 - domenica - giorno 26
Km 90 E Kharkhorin (MGL) (7.52) [+6] -
Mongol Els (MGL) (13.56) [+6]
km 195
viaggio h 6.04, guida h 3.03

Mi sveglio e apro la tenda poco dopo l’alba, e vedo un bel cielo azzurro; bene, almeno il tempo mi è amico in questa giornata.

La prima cosa da fare è verificare la tenuta della gomma. Per le forcelle, c’è poco da vedere: con la moto ferma, la perdita d’olio è minima e la situazione mi sembra la stessa di ieri sera. La pressione della gomma, invece, è calata, ma non a zero; ora segna 1,5: una perdita di 1,1 atm in 9 ore, poco più di 0,1 all’ora. Se restasse sempre così, ci metterei la firma. La posteriore va bene.

Adesso devo decidere che fare: andare avanti, tornare indietro? La forcella regge, non è in buone condizioni, ma confermo la valutazione di ieri sera: mi permette di guidare, anche se male. Quello che mi preoccupa di più invece è il cerchio; se mantenesse questa perdita (0,1 atm l’ora), potrei andare avanti gonfiando la gomma ogni 2/3 ore, in modo da mantenere una pressione ottimale o almeno accettabile. Ma reggerà in movimento? Decido che non è il caso di continuare col programma originario; la moto è in condizioni precarie e sarebbe già tanto riuscire a tornare a casa: taglio i previsti ulteriori 4 giorni (e circa 1.000 km) in Mongolia e torno a casa dalla via programmata, senza giri ulteriori.

Ma sono ad appena 90 km da Kharkhorin, col grande monastero Erdene Zuud Zhiid e Karakorum, l’antica capitale di Genghis Khan! Kharkhorin rappresenta il punto estremo del viaggio (la prosecuzione fino al lago Terkhiin Tsagaan Nuur era solo eventuale, subordinata alle condizioni della strada). Arrivare fino a Kharkhorin significherebbe per me aver compiuto il percorso programmato, essere giunto al punto finale del viaggio, una specie di “missione compiuta”. Devo però anche tener conto della situazione della moto; in queste condizioni, ogni chilometro per la ruota anteriore potrebbe essere l’ultimo; un’altra buca, ulteriori sollecitazioni, potrebbero aggravare l’ammaccatura o, peggio, provocare una lesione al cerchio o la fuoriuscita della gomma. Non so, sono incerto, sono combattuto tra due desideri: completare il viaggio e preservare l’incolumità della moto (e mia). Non so fino a dove posso spingermi, fino a dove posso osare.

Faccio qualche foto (potrebbe essere l’ultimo giorno di viaggio in Mongolia e potrei non avere altre occasioni), smonto la tenda, carico i bagagli e mi dirigo verso la strada. Oggi voglio arrivare a Ulan Bator, probabilmente l’unico posto in Mongolia dove fare una riparazione di fortuna alla ruota. Ma, se tardo andando prima a Kharkhorin, potrei non arrivare in tempo a Ulan Bator.

La strada è sempre più vicina: venti metri, dieci. Devo decidere: a sinistra verso Ulan Bator (e casa) o a destra verso Kharkhorin e il completamento del viaggio? Due metri: metto la freccia … a destra; spero di non dovermi pentire della mia decisione. A Kharkhorin!

La moto sembra esitare, imboccando la strada; sembra chiedermi “ne sei sicuro?”. No, mia cara Gold, non ne sono sicuro, ma sento di doverlo fare. Andiamo e cerchiamo di fare del nostro meglio.

Infine, ecco il cartello di Kharkhorin, un cancello attraverso la strada, con quel nome scritto in grande. Ci sono arrivato, ce l’ho fatta. Proseguo per 10 km (il cartello indica solo l’inizio del territorio di Kharkhorin) e finalmente arrivo al cospetto del grande monastero Erdene Zuud Zhiid. E' davvero enorme; una cinta muraria rettangolare, con 108 stupa (specie di torri, simboli religiosi buddisti, disposte circa ogni 15 metri; 108 è un numero sacro; il perimetro quindi è di circa 1.600 metri), racchiude templi e abitazioni dei monaci.

Il monastero è costruito in gran parte sul sito dell’antica Karakorum; le sue pietre (la città era ormai abbandonata e in rovina da tempo) furono utilizzate nel XVI sec. per la costruzione di questi templi e delle mura.

Attraverso il cortile interno del monastero, fino all’ingresso opposto. Da qui, un sentiero di 300 metri e arrivo finalmente alla “tartaruga di pietra”. Ai tempi dell’antica Karakorum, quattro di queste tartarughe (considerate simboli di eternità) segnavano i confini della città; oltre a questa ne è rimasta solo una, più difficile da raggiungere. Sulla schiena della tartaruga noto una buca, che conteneva una stele con iscrizioni. Diversi nastri colorati (simboli buddisti) sono legati al collo dell’animale. Vicino, alcuni banchetti di souvenir attendono clienti.

Intorno vedo pochi resti della città; sono in corso degli scavi e, forse, in futuro potremo vedere qualcosa di più dell’antica capitale di Genghis Khan.

Sono le 11. Oltre non vado; oltre non posso andare. Questo è il punto estremo raggiunto dal mio viaggio; ho fatto 14.419 km da casa, in 26 giorni; qui finisce il mio viaggio “in avanti”; adesso ho quasi 11.000 km da percorrere per tornare a casa, se ce la farò, con la moto in queste condizioni.

Torno alla moto e, per prima cosa, controllo la pressione della ruota anteriore: 0,7! Andiamo male, ha perso quasi 2 atm in 3 ore. Devo cercare di raggiungere Ulan Bator, e alla svelta.

Rigonfio la gomma e parto, per la prima volta nel viaggio ripercorrendo la stessa strada. Non mi volto nemmeno a guardare l’ultima volta il monastero; il mio scopo principale, da ora in poi, sarà arrivare a casa.

La via ovviamente è malridotta come l’ho incontrata all’andata, ma mi sembra anche peggio. Ho difficoltà ad evitare le buche, a piegare la moto, a compiere qualunque manovra. Do prima la colpa al carico mal posizionato (con tutte le buche prese, una borsa si è un po’ spostata sulla sella), poi alla strada cattiva, infine devo ammettere che, forse, è la gomma che non ce la fa più.

Rimando ancora di qualche chilometro la verifica, quasi temendo di dovermi confrontare con la realtà; ritardo il momento della verità a dopo il bivio, quando so che la strada migliorerà. Arrivo all’incrocio, lo supero e percorro un chilometro sulla strada; non cambia nulla, devo fermarmi.

E’ con un po’ di timore che avvicino il manometro alla valvola della gomma anteriore, ma ormai non posso più sfuggire la realtà, è il momento di affrontarla: 0!

Non c’è più aria nella gomma; la gonfio, con poche speranze, ma l’aria, come entra dalla piccola valvola, esce dalla grande ammaccatura: 0, sempre zero, la gomma è a 0.

5.3 DECISIONE DIFFICILE: MOLLARE O CONTINUARE?

Sono le 12.40. E adesso cosa faccio? Lo scoramento è grande, ma cerco di mantenere lucidità per decidere cosa fare. Analizzo la situazione; sono in Mongolia, nel punto più lontano raggiunto dal mio viaggio, a quasi 11.000 km da casa. La ruota anteriore è ammaccata tanto da non permettere la tenuta della gomma tubeless. La gomma è rovinata per aver camminato diversi chilometri a bassa pressione e alcuni a 0. Le forcelle hanno perso quasi tutto il loro olio e mi restano solo le molle, che su una Gold Wing, da sole, possono fare ben poco, oltre a tenere la moto dritta. Le forcelle non sono riparabili, non in Mongolia, non senza pezzi di ricambio e non in tempi brevi. Anche se riuscissi (non qui e non da solo) a sistemare la gomma (p.e. infilandoci la camera d’aria che mi sono portato dall’Italia proprio per questo), resterebbe il problema della sua usura, che stimo non mi consentirebbe di arrivare in Italia; per spedirmi una gomma (disponibile dal mio meccanico) o anche un cerchio (probabilmente non disponibile) ci vorrebbe almeno una settimana.

Sono le 12.45; sono passati 5 minuti, ho deciso: torno a casa in aereo, con la moto. Ora devo trovare un furgone che mi porti la moto a Ulan Bator, dove prenderò l’aereo.

Mi guardo intorno; nulla. Decido di provare con l’assistenza stradale fornita con la tessera FMI. Non ci spero molto (sono in Mongolia), ma è venduta come valida in tutto il mondo, è gratis (fino a 105 euro) ed è comunque un numero di telefono a portata di mano. Chiamo il numero italiano, col telefono satellitare. E qui comincia l’odissea dell’ “assistenza”.

Ore 12.50; dopo un po’ di attesa, riesco a parlare con un operatore, cui spiego in sintesi il problema.

“Salve, sono Marcello Anglana, tessera FMI n. xxx, sono con la mia moto Honda Gold Wing 1500 in Mongolia e ho rotto la ruota; chiedo un furgone per portarla nella capitale, Ulan Bator, da dove poi tornerò (a mie spese, ovviamente) in Italia in aereo. Sono esattamente 1 km a est dell’incrocio xxx, presso le Mongol Els, 300 km a ovest di Ulan Bator; se vuole le do anche le coordinate gps”.

Qualche secondo di silenzio dall’altra parte; mi immagino la faccia della centralinista, poi:
“Dove ha detto che sta?!”

“In Mongolia; sa, quello Stato tra la Russia e la Cina; è in Asia.

Non sto qui a raccontare tutte le telefonate, ma, per farla breve, mi richiamano qualche volta, poi più nulla, nonostante i miei solleciti. Riesco a sapere (chiamando io) che hanno allertato il loro corrispondente di Ulan Bator e che il camion è partito, ma non sanno dirmi né da dove, né quando, né tanto meno darmi il suo numero di telefono; non hanno ovviamente nemmeno idea di quando arriverà.

Non sanno praticamente nulla ed io intanto resto solo nella steppa. Le telefonate sono difficoltose, spesso cade la linea. A forza di telefonare, ho quasi terminato il credito del satellitare.

Intanto continuo a guardarmi intorno e capisco che devo cercare di cavarmela da solo.

Riesco a trovare un furgone, disponibile a portarmi a Ulan Bator. Il problema è, come temevo, caricare la moto sul furgone. Il pianale, ovviamente fisso, è a circa un metro di altezza. I mongoli ancora non hanno capito che la mia moto pesa mezza tonnellata, non è possibile portarla su di peso (anche perché la carrozzeria è in plastica, non ci sono abbastanza appigli per tutte le persone che sarebbero necessarie per il sollevamento). Glielo spiego di nuovo, in inglese e a gesti: “Mezza tonnellata, half ton, capito?!” Quello che mi serve è una semplice asse, sufficientemente larga, ma soprattutto robusta.

Hanno capito, almeno così credo; o forse no: i mongoli se ne vengono con un’asse … di legno! Una fragile asse di legno. “E ci fate il bucato con quell’asse!”, sbotto spazientito; “ora ve lo faccio capire!” Salto sull’asse con violenza e la spacco in due! “Hai visto, testa di c####, hai visto cosa sarebbe successo se fossi salito su questa roba? Mi vuoi ammazzare (e distruggere la mia moto)? Non ci posso salire su una cosa del genere! Half ton, half ton, capito?!”

I mongoli sono rimasti impressionati dal mio gesto e si guardano smarriti; quando ci vuole ci vuole; visto che non capiscono le parole e che il concetto di una moto da mezza tonnellata è forse al di fuori della loro esperienza, un po’ di sana brutale realtà è il metodo più efficace di fare arrivare il messaggio. Possibile che in questa terra non ci sia una semplice asse di metallo o almeno un’asse di legno più robusta di quella roba che adesso giace, inutile, spaccata in due da un winger arrabbiato, vicino al furgone?!
Discorso chiuso. I mongoli rinunciano, si rendono conto di non essere in grado di caricare la moto sul furgone in sicurezza.

Si ferma un’auto con due ragazze mongole. Molto simpatiche, si avvicinano a me, seduto sulla moto, che aspetto chissà che, e mi chiedono se mi serve qualcosa; mi danno biscotti e acqua; una foto insieme e ci salutiamo. L’ombra della mia moto, sempre più lunga, mi avvisa che è ora che mi prepari alla notte.

Sono le 21, ormai: il sole tramonta, alla mia sinistra, dietro le dune delle Mongol Els; un intenso, solitario, bellissimo tramonto. La steppa cala, gradualmente, nell’oscurità. E, contemporaneamente, una dolcissima luna piena si alza alla mia destra. I bambini di guardia ai cammelli, ormai liberi dal vincolo dei turisti, corrono felici sui loro animali, nella steppa, tra le dune, prima di tornare nelle loro gher; mi salutano, li saluto.

I fari dei rari veicoli di passaggio proiettano i loro fasci luminosi, sempre più rari, sempre più distanti. E, oltre al buio, cala il silenzio intorno a me. Totale. Resto solo, con i miei pensieri, ma non riesco a concentrarmi sul futuro, riesco solo a pensare che devo trovare il modo di portare la moto a Ulan Bator.

Sono le 23.10. Al diavolo l’assistenza stradale! Al diavolo tutti quelli che promettono qualcosa che non sanno mantenere. Ho aspettato oltre 10 ore; non è il caso di restare più a bordo strada, a quest’ora. Metto in moto, accendo le luci, aziono la freccia, scendo dalla scarpata (con qualche difficoltà) e mi avvicino alla coppia di gher, 100 metri alla mia sinistra. Mi avevano già chiesto se mi serviva qualcosa, offrendomi alloggio; adesso è ora, prima che vadano tutti a dormire. Il mio fascio di luci li richiama da dentro le tende: chiedo ospitalità. Non c’è problema: una gher è abitata dalla famiglia mongola (padre, madre e una figlia adolescente), l’altra è a disposizione degli ospiti. Mi chiedono se voglio mangiare: no, grazie, già fatto, voglio solo dormire e domani organizzerò qualcosa per la moto. Parcheggio la moto davanti alla porta della gher e mi butto su uno dei suoi letti.

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